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I poeti e la crisi

Poesia

Aa. Vv.
Edizioni Thule


Recensione proposta da LaRecherche.it

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Pubblicato il 31/01/2016 17:00:00

 

[ Recensione di Anna Maria Curci ]

 

AA.VV. I poeti e la crisi. A cura di Giovanni Dino. Fondazione Thule Cultura, 2015

 

È ancora incerto

Se ce la caveremo senza essere torturati, se moriremo di una morte
naturale, se non ritorneremo a soffrire la fame, a rovistare i bidoni 
della spazzatura alla ricerca di bucce di patate, se saremo trascinati in branchi, questo
lo abbiamo visto. Se, in più, non ci toccherà imparare il linguaggio di chi bussa da cella a cella,
spiare il prossimo, essere spiati dal prossimo, e dover piangere alla parola
libertà. Se ce ne andremo di soppiatto in tempo su un letto bianco o
periremo per l’attacco nucleare centuplicato, se ce la faremo a 
morire con una speranza, è ancora incerto, è ancora incerto.

Marie Luise Kaschnitz
(traduzione di Anna Maria Curci)

 

C’è una parola, nell’introduzione di Giovanni Dino, che definisce coloro che hanno contribuito all’antologia I poeti e la crisi. Si tratta di un aggettivo e questo aggettivo è «desti». Sanno bene le autrici e gli autori dell’antologia che la poesia, che voglia essere tale, non può essere innocua, semplicemente perché scaturisce, nelle sue molteplici forme, dal bisogno di dare una risposta allo schiaffo del tempo, al giogo di turno, alla pressione e all’oppressione. «E non avere scuse / ci sono ordini / che vanno sconvolti / per aprire spazi al cielo / e ritornare / come i germogli sui rami.»: la seconda strofa di [Un granaio oltre la crisi], poesia con la quale Lorenzo Mullon ha contribuito a I poeti e la crisi, mette bene in rilievo basi di partenza, principi e mete comuni.

Va da sé, d’altro canto, che già soltanto il numero molto alto di tutte le persone che hanno aderito all’iniziativa di Giovanni Dino – 179 – introduce a un panorama di grande diversità. Questo breve itinerario, che sarà obbligatoriamente limitato, intende dunque un convinto invito alla lettura e all’approfondimento personali e, allo stesso tempo, dare evidenza della ricchezza di stili e declinazioni, che in questo volume si manifesta con grande generosità.

Gli approcci sono molto diversi tra di loro, diversi sono i toni, pari invece sono lo slancio e la serietà nell’assunzione del compito di dare concretezza a una parola non innocua, ma vera, non “vuoto ruzzolare / di sillabe”, per dirla con un verso di Ingeborg Bachmann, con la convinzione che «non si può scrivere / per salvarsi l’anima», come ricorda Marie Luise Kaschnitz nella poesia Scrivendo, della quale Gian Piero Stefanoni riporta in epigrafe, nel suo contributo, alcuni versi nella mia traduzione, ma che nel frattempo, mentre lei, l’anima «data per persa, passa avanti e canta», noi continuiamo a scrivere e a scrutare i segni del futuro, a non tacere del passato, a vivere nell’ossimoro del nostro confermare la precarietà del presente. «È ancora incerto», scriveva nel 1970 Marie Luise Kaschnitz, nata proprio il 31 gennaio di 115 anni fa. È ancora incerto, sì.

Eppure, dalla consapevolezza di limiti, muri, precipizi e lacerazioni nascono testi che non tacciono dinanzi al guanto di sfida, che non rinunciano al dire, alla “poesia come attimo di libertà”, per ricorrere al titolo delle lezioni di poetica, dono e lascito di Hilde Domin.

I riferimenti a scritture e alla Scrittura variano da poeta a poeta, ma sono sempre percepibili, vivi e significativi. Molto frequente è il duetto, ri-visto e ri-creato, con la Bibbia. Gian Piero Stefanoni inverte, per i poeti al tempo della crisi, la polarità dei segni evangelici dello spezzare il pane e della moltiplicazione dei pani e dei pesci: a spezzarsi per il pane sono i poeti, mentre a moltiplicarsi non è certo il cibo, ma i poveri. Santino Spartià evoca e invoca Emmaus, il cammino e l’incontro con la «Divina Presenza», «Parola eterna», la via del calvario e il cireneo, che diventa una sorta di “Everyman”, “ognuno”, quale giunge a noi dal morality play del tardo Quattrocento e, nella versione novecentesca, da Hofmannsthal. Anche qui si assiste a un rovesciamento e l’invocazione si fa preghiera pressante: «Qualora ci lasciassi ancora soli, saremmo noi a morire crocifissi / per riscattare la tua latitanza». Il diluvio universale, l’arca di Noè, Erode e Caino sono termini di paragone vivissimi nel Requiem per Simba di Italo Spada. Un’autentica professione di fede, fermissima nei toni e volutamente straniante, è Appunti e scommesse di Adele Desideri; ancora una volta ritorna qui il rovesciamento della prospettiva nel guardare alla “storia della salvezza” con gli occhi aggrediti dall’urgenza della crisi: «Credo / che i discepoli fossero stupiti, confusi / che il Padre abbia guardato con dolore il Figlio crocefisso / che il figlio abbia perso il padre distratto».

Come avviene per una poesia di Maria Grazia Lenisa dalla raccolta L’ilarità di Apollo, del 1983, ripubblicata in questa antologia, sono numerosi i riferimenti a testi e personaggi di Bertolt Brecht: a Mutter Courage in La piena di Marzia Spinelli, a un frammento di Brecht in Filtrando e rifiltrando il manifesto di Marx di di Ennio Abate.

Le immagini dell’acqua, con le valenze opposte di rinascita e di gorgo mortale, sono tra le più ricorrenti, così che mentre Alla foce del cielo di Sandro Angelucci l’acqua è espressione dell’anelito dell’individuo alla comunione con la totalità degli elementi naturali, essa è torbida forza che travolge e inghiotte, come avviene nel già menzionato Requiem per Simba e in Requiem per i Morti di Lampedusa di Eugenio Giannone.

Tra “i modi di morire” (ricorro intenzionalmente al titolo del ciclo di romanzi progettato da Ingeborg Bachmann) nel tempo della crisi, alla morte per annegamento di migliaia di migranti, alle «bare d’acqua» si affiancano le morti bianche, le morti sul lavoro, denunciate, in versi in dialetto listati a lutto da Marco Scalabrino in Faddacchi (Impalcature).

Non meno drammatica, d’altro canto, è la vicenda di chi, uscendo dal lavoro, è investito dall’auto guidata da un pirata della strada: è quello che avviene a Miranda in Lo sguardo di Loredana Savelli.

La speranza vibrante in prospettive migliori dà le ali all’uso del tempo futuro: ne è un esempio molto chiaro ed efficace Macchie di Bitot di Giancarlo Serafino: «Impasteremo un uovo / con tutta la sabbia dei deserti».

Sollecitudine e preoccupazione cantano con timbri di voce diversi e a differenti immagini portanti ricorrono per additare da un lato progetti di condivisione, dall’altro antichi e insopprimibili egoismi sazi e con il cerone dell’ipocrisia. Pare così, affiancandole, che alla voce di soprano che canta nella poesia In cammino di Rosaria Di Donato («In cammino con gli altri per le strade del mondo / misura il passo un andare nuovo/ si procede affiancati non come ultimi o primi / ma uniti ciascuno donando uno sguardo un sorriso») risponda la voce di contralto di Anna Maria Curci in Sotto coperta: «Sarebbe facile andare salmodiando / prendendosi per mano o in solitaria. / oppure replicare bonomia / (io dono, tu ricevi confuso) / su copione di decime irrisorie.»

Alcuni autori hanno scelto di affiancare brevi prose, sguardi acuti e istantanee dalla vita, alle poesie proposte. È questo, ad esempio, il caso di Lucianna Argentino, che fa precedere alla lirica Prossimi al mio dire la prosa Puntella la fragilità delle cose, che leggo come serissima e realistica presa di coscienza del proprio compito di poeta dinanzi all’esistente.

Uno dei più potenti denominatori comuni, si è detto in apertura, è, nonostante diversità di modulazioni e approcci, il non voler rinunciare al dire, all’importanza della testimonianza. Testimoni è il titolo della poesia di Roberto Maggiani, presente nell’antologia, che pronuncia un monito inequivocabile e, insieme, l’invito a ciascuno a farsi carico della propria parte, ad assumere responsabilità. È un invito che faccio mio, che faccio nostro («Quando ridirò mio e intenderò ciascuno», Volker Braun): «Guai a chi lascia il timone. / Non si salverà dalle onde / della nefasta società dei consumi: / “Non oro” che luccica. / “Non speranza” che inganna. / “Non presenza” cercata. // La civiltà dei “Non” è per chi lascia il timone.»

 




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